IL
“LUME ALLA VIGNA ” OVVERO IL LUME DEL CARNEVALE.
TRADIZIONE E CULTURA DELLA FESTA NEL MONDO CONTADINO
Il
“lume al grano” è un’antica usanza del tempo di Carnevale che risale al mondo
pagano. Si è tramandata per millenni fino ai nostri giorni per scongiurare uno
dei maggiori malanni per la civiltà contadina, la malattia del grano detto
carbonchio o golpe. Nell’ultima sera di carnevale, soprattutto nelle campagne
intorno a Firenze, era d’uso che i contadini scendessero con delle torce in
mano nei campi seminati con il grano, mettendo in scena un vero e proprio “rito agrario” antichissimo. Tale
usanza era accompagnata da una cantilena, una preghiera, “Grano, grano, non
carbonchiare/ ‘ll’è l’ultima di carnevale./Tanto al piano che al poggio/una
spiga ne faccia un moggio”, la cui origine e storia si perde nel corso dei
tempi. “Siamo in presenza di un umanesimo popolare (vogliamo chiamarlo così)
che vede l’uomo cercare affannosamente di prevedere, prevenire, curare perché
tutto si può evitare e, in definitiva, l’uomo è responsabile degli eventi
essenziali della vita ( Alessandro Fornai: In parole povere 2008 pag. 72).
Nelle
terre del Montalbano non sembra che la tradizione sia rimasta o ve ne sia
una traccia. Tuttavia sentiti i vecchi contadini (di Vinci, Apparita e
Lamporecchio) viene ricordata un’altra usanza, molto simile, il “lume alla
vigna”.
L’evento
non s’innesta nella storia e ciclo del grano, bensì in quello della vite,
cultura tipica del nostro territorio. I vecchi ricordano ancora di fuochi
accesi ai bordi delle vigne e di camminate con torce in mano per le prode cantando stornelli o filastrocche.
La più frequente “Uva uva fammi il tralcio ti fo il lume per Berlingaccio”.
La più frequente “Uva uva fammi il tralcio ti fo il lume per Berlingaccio”.
Il
senso profondo del rito è praticamente lo stesso. In questo periodo la pianta
della vite stava subendo la potatura invernale. I contadini iniziavano
a procurarsi i salci per poter legare le fascine. Gli alberi di salici erano
molto frequenti nella nostra zona. Oggi, purtroppo, per consentire una maggiore sicurezza per i mezzi meccanici vengono tagliati, deturpando un po’ il
paesaggio. Al posto del “salice” gli agricoltori impiegano altri materiali e sistemi.
Viene meno la poesia del tempo. La cantilena del berlingaggio nascondeva
comunque l’identica paura e il timore per il futuro del raccolto, che la vite
non ributtasse adeguatamente, motivo per il quale si curava e si assisteva.
La
variante del Montalbano è il giorno del rito. Non l’ultimo di
Carnevale, bensì il Berlingaccio,
la festa che
si celebra il “giovedì grasso” ovvero il giovedì precedente l'ultimo giorno di carnevale. Il termine
potrebbe derivare dal tedesco "bretling" (tavola), dal latino
per+ligere (leccare con insistenza, nel senso di mangiare gustosamente) o,
sempre dal latino, berlengo (tavola, mensa). Tutti i significati riportano
tuttavia alla tavola, al cibo e in particolare ai dolci che era uso mangiare
per questa festa. A Firenze il dolce più
frequente di questa stagione era ed è la schiacciata fiorentina. Dalle nostre parti
resta il berlingozzo. Di solito, il giovedì grasso era l’occasione di grandi cenoni - "Per
Berlingaccio chi non ha ciccia ammazzi il gatto!", dicevano i contadini,
da digerire e smaltire con le camminate per le vigne, di ritorno, ai casolari.
Testimonianze della festa si sono ritrovate addirittura in alcuni documenti fiorentini del
XV secolo "È berlingaccio quel giovedì, che va innanzi al giorno del
carnesciale, che i Lombardi chiamano la giobbia grassa." (Benedetto
Varchi, 1416).
Sarebbe
interessante scoprire se anche l’usanza contadina e la filastrocca di “fare
lume alla vigna” sia antica come la festa oppure sia una derivazione per
analogia e adattamento dell’antica festa pagana legata al ciclo del grano
tipica di altre zone dello stesso contado fiorentino.
I' calendario contadino di Gangalandi, 2015
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